Gesù Dio lo ha risuscitato
e noi tutti ne siamo testimoni.
Dagli Atti degli Apostoli (At 2,32)
III DOMENICA di PASQUA – Anno A
In questa domenica, terza di Pasqua, la proclamazione del brano ci trova con gli occhi pieni delle folle che domenica scorsa hanno gioito per la santità di due cristiani “coraggiosi”, che hanno saputo vivere la loro fede in maniera esemplare – pur essendo di carne e ossa come noi, di carne e ossa come Cleopa e il suo amico – tanto da suscitare grande ammirazione non solo tra i credenti.
Queste folle osannanti hanno dato vita a un evento “storico”, “unico”, “emozionante”…, come ci siamo sentiti ripetere dai media e dalle voci più diverse. Ma possiamo accontentarci di questa “eco” mondiale? No. La risonanza si spegnerebbe in pochissimo tempo, magari in attesa di qualche altro cristiano “coraggioso” che susciti la meraviglia delle folle. E’ necessario, invece, che la santità “coraggiosa” – che la provvidenza di Dio ogni tanto fa risplendere in maniera così evidente – diventi l’impegno delle folle dei cristiani, a partire da quelle presenti in san Pietro, di quelle che l’hanno visto in tivù, fino a quelle che l’hanno semplicemente sentito raccontare. Cioè di tutti noi. Questa “festa” per rimanere un “evento” (ciò qualcosa che cambia la vita di chi vi ha partecipato) deve spronarci a portare nella piccola vita di ogni giorno, almeno un po’ del loro coraggio dei due nuovi santi, per avere, almeno un po’, della loro la capacità di dare “testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio, della sua misericordia”. E’ possibile tutto questo per noi piccoli cristiani, feriali? Non è un impegno che supera le nostre deboli spalle? Non è una grandezza che noi possiamo soltanto ammirare,
ringraziando Dio per i pochi che ci riescono?
Deve essere possibile, perché credere in Gesù significa poter ripetere con Pietro: “Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni”.
Per avviarci su questa strada, per non accontentarci di essere folla che con orgoglio ammira la santità dei “cristiani” coraggiosi, dobbiamo entrare nella convinzione che la fede in Gesù non è bene da tenere per noi, ma un annuncio da portare. I discepoli di Gesù sono chiamati per essere mandati. E qui entriamo in crisi. Infatti, se ci si chiede più preghiera, più sacramenti, più carità e anche più testimonianza, ci stiamo. Ma se ci si chiede di annunciare il Risorto, non sappiamo cosa fare e nemmeno cosa vuol dire, perché da troppo tempo il compito di “annunciare il Risorto” è stato delegato o riservato ad alcuni cristiani. Quando i cristiani “semplici, feriali” vengono stimolati ad annunciare Gesù, la reazione è sempre la stessa: “Ma come posso annunciare il Risorto, nel palazzo, in ufficio, nel negozio, tra gli amici? Mica mi posso mettere a predicare… Mi tirerebbero addosso tutto quello che trovano in giro”. Purtroppo, il fatto di avere delegato (o di esserci fatti portare via) l’annuncio del vangelo ad alcune categorie di cristiani, ha creato la convinzione che annunciare il Risorto è fare le prediche che sentiamo in chiesa e in ambienti simili. Non è così. Gesù che si accompagna ai due discepoli di Emmaus ci offre indicazioni per un annuncio che può essere fatto in
tutti i luoghi e in tutte le situazioni.
Leggiamo il brano non dall’angolo di visuale dei due discepoli delusi e tristi, noi (è giustissimo farlo quando ci capita di essere nella stessa situazione dei. Però non basta), ma di quello di Gesù che si mette accanto a loro, e cerchiamo di imparare da lui.
Gesù si avvicina e cammina con loro. Non irrompe, non pretende il centro della scena. Arriva con discrezione. Non impone il suo passo e la sua direzione. Cammina con loro. E ascolta. Entrato nei loro problemi, non parte con la predica, con il consiglio non richiesto, ma suscita domande: “Che sono questi discorsi che state facendo con il volto triste?”. Fatte emergere le domande spiega, partendo da quello che a loro interessa (quante prediche partono da ciò che interessa a coloro che ascoltano?).
Non dà spiegazioni prefabbricate e scontate, da “catechismo”, ma tali da fare ardere il cuore. 
Terminato il dialogo, Gesù non chiede verifiche, non cerca subito il consenso alle sue spiegazioni, né tanto meno pretende cambiamenti immediati di vita: “Adesso tornate a Gerusalemme”. No. Fa finta di andare oltre, perché una presenza è gradita e fruttuosa soltanto se richiesta (se ci si ricordasse di più della manzoniana donna Prassede…). Una volta a tavola con loro, conquistata la loro fiducia e simpatia, non smentisce le parole, ma le conferma con un segno tanto praticato che lo identifica e lo fa riconoscere: lo spezzare il pane, cioè la condivisione, la carità, la gratuità.
Questo percorso di evangelizzatori possiamo farlo con tutti “gli Emmaus” che ogni giorno incontriamo tra coloro con i quali viviamo, lavoriamo, ci relazioniamo in tutti gli ambienti e in tutte le situazioni. E’ quello che hanno fatto “alla grande” san Giovanni XIII e san Giovanni Paolo II, e che, umilmente, siamo chiamati a fare anche noi.
DON TONINO LASCONI
Foto: 1. archivio Paoline, 2. dal web, 3. 4. 5. S. Mattolini
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