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Imitiamo le folle di Gerusalemme! Ma che, davvero? – BUONA DOMENICA! DOMENICA DELLE PALME – ANNO A

Osanna al Figlio di Davide!     
Benedetto colui che viene nel nome del Signore,
il re d’Israele!
Osanna nell’alto dei cieli! 
(Mt 21,9)

Con la domenica delle Palme inizia la Settimana santa, la grande settimana che ci porterà nel cenacolo, che ci farà sostare accanto al Gesù in preghiera nell’Orto degli Ulivi, e poi con lui lungo la via della croce, fino al Calvario e nel silenzio del sepolcro…
Di solito la domenica delle Palme inizia con una processione, breve o lunga che sia, e con la benedizione di nuovi rami di ulivo, per poi portarci all’ascolto del Passio, una vera e propria immersione nei racconti della Passione.
L’inizio della processione sarà in qualche modo rievocazione. Andremo anche noi lì, dove altri erano. Canteremo e alzeremo anche noi rami di ulivi o di palme. E invocheremo, e diremo il nostro Osanna. E le parole che ci introdurranno o che ci hanno introdotto potrebbero essere proprio queste: «Imitiamo le folle di Gerusalemme». E io mi chiedo: «Davvero?». Quelle folle non fanno una gran bella figura. Sì, la partenza è decisamente buona, ma poi? E in tempi di populismi, di “esisti se ti acclamano a suon di like”, di influencer, che cosa quelle folle hanno da dirci e da insegnarci?
Mi chiedo: chi era parte di quelle folle?
Quando noi pensiamo alla folla che accompagnò la permanenza di Gesù a Gerusalemme ci sembra di essere davanti a dei volta gabbana. Prima mantelli stesi e osanna a tutto andare, poi con la stessa forza un unico grido: «Sia crocifisso!», ripetuto più e più volte. Uomini e donne assolutamente inconsistenti su cui dei poteri forti hanno fatto leva per ottenere dal potente di turno, sempre a caccia di consensi, ciò che alcuni avevano deciso essere il bene di tutti.
Eppure, quella folla è davvero molto eterogenea. È fatta sì dal popolo ignaro, buono solo a farsi trascinare, ma era costituita anche da discepoli e discepole, dai Dodici, dalla Madre di Gesù e dalle altre donne, da quei capi e anziani che in vari modi avevano manifestato apprezzamento per quel Maestro di Nazaret e da lui avevano anche ricevuto molto, dagli amici, da chi pur guardando da lontano aveva riconosciuto in quel Galileo un uomo dalla parola autorevole. Quante emozioni contrastanti avranno attraversato quella folla anonima e indistinta! Quante lacrime inascoltate e coperte dalle urla dei più forti (o forse solo dei più deboli e per questo facilmente trascinabili)!
È folla, quella dei discepoli (e certamente anche discepole, Madre inclusa) che vive una cena pasquale unica nel suo genere e indimenticabile. È folla quella di chi nel Getsemani si addormenta, di chi arresta, di chi reagisce. È folla quella che assiste impotente, dentro e fuori i palazzi del potere, il compiersi di un’ingiustizia. È folla quella che condanna e quella che segue e accompagna il condannato. È folla anche quella che segue da lontano.
Noi chi siamo? Perché in quella folla ci siamo anche noi, oggi. Di fronte al Figlio di Dio crocifisso e risorto c’è ognuno di noi che può e deve scegliere se restare o uscire dalla folla, se lasciarsi compromettere dalla Pasqua o continuare a osannare sì, ma guardando alla giusta distanza.
È facile scegliere chi essere rispetto a quel Gesù, condannato e ucciso duemila anni fa. Il punto è chi decido di essere oggi perché ogni figlio di Dio non sia più accompagnato a un patibolo, ma alla vita. A una vita risorta prima ancora che uccisa. Questa Pasqua può essere per noi una nuova Pasqua, un passaggio verso la vita che Dio vuole generare attraverso noi!

UNA PREGHIERA COME SOSTEGNO

Uomo della croce

Uomo della croce,
che per amore
hai trasformato
un ceppo di morte
in un albero di vita,
tendiamo verso te
le nostre mani,
perché vuote di noi stessi
possano lasciarsi riempire
da un nuovo amore.

Uomo della croce,
sfigurato dal tradimento
e dalla distanza di chi hai amato,
fai brillare la nuova bellezza
che germoglia dalla gratuità
del perdono.
Uomo della croce,
che conosci Dio,
insegnaci il dono
per scoprire la vita.
Amen.

DAL VANGELO DELLA DOMENICA
(Mt 26,14-27,66 -Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo )

[…]Elì, Elì, lemà sabactàni?
A mezzogiorno si fece buio su tutta la terra, fino alle tre del pomeriggio. Verso le tre, Gesù gridò a gran voce: «Elì, Elì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Costui chiama Elia». E subito uno di loro corse a prendere una spugna, la inzuppò di aceto, la fissò su una canna e gli dava da bere. Gli altri dicevano: «Lascia! Vediamo se viene Elia a salvarlo!». Ma Gesù di nuovo gridò a gran voce ed emise lo spirito. […]

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Lazzaro… quando l’amicizia fa strani doni -BUONA DOMENICA! V DI QUARESIMA – ANNO A

Io sono la resurrezione e la vita.
(Gv 11,25)

Lazzaro. Basta dire il suo nome perché a tutte e tutti noi venga in mente un’unica scena: un uomo morto riportato da Gesù in vita. Non vi nascondo che tutte le volte in cui penso a quest’uomo non posso fare a meno di chiedermi se Gesù gli sia stato davvero amico. Intendiamoci, non metto in dubbio le Scritture… ma certo, se la morte è una delle esperienze più drammatiche della vita, viverla per ben due volte non credo che sia classificabile tra i regali più desiderati. E Gesù al suo amico Lazzaro lo ha fatto. Ma certo – mi direte – era necessario perché attraverso la malattia e la morte di Lazzaro, Gesù venisse glorificato, perché così fosse chiara a tutti l’opera di Dio, perché finalmente davanti a un evento tanto straordinario avrebbero iniziato a credere anche i più determinati tra gli increduli. Ed effettivamente molti, tra i Giudei che videro, credettero (così si chiude il brano del Vangelo di questa V domenica di Quaresima). Ma – scrive Giovanni nei versetti successivi – alcuni di loro andarono dai farisei e riferirono ogni cosa. E così la risurrezione di Lazzaro non ha fatto altro che ottenere un verdetto: «Gesù doveva morire per la nazione; e non soltanto per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio dispersi» (Gv 11,51-52). Ricordiamo questo passaggio importante (anche se non incluso nel Vangelo che la liturgia ci propone), perché in questi versetti c’è la chiave di tutto.
Ritorniamo per un attimo alla frase storica di Gesù, che lascia sbigottiti anche i suoi discepoli: «Questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio» (Gv 11,4). Eppure Lazzaro muore e tutto lascia pensare che Gesù non muova un dito. Letteralmente resta fermo per due giorni. Assurdo se si pensa che i Vangeli non fanno altro che raccontarci le sue continue ripartenze. Ora sembra quasi che attenda la morte dell’amico. Sembra che abbia bisogno di far capire a tutti qualcosa. Ma che cosa?
Ecco, ve lo confesso: di fronte a questa frase io tremo. Perché troppe volte, in bocca anche ai migliori predicatori quel «è per la gloria di Dio» diventa una clava che cade sulla testa di chi è già un colpito dalla vita. Quella malattia, come ogni malattia e ogni morte, troppe volte la sentiamo diventare una prova, un’occasione per manifestare la nostra fede, un male permesso da Dio e persino un atto di benevolenza da parte di Colui che ci rende partecipi della sua passione. E invece no! E invece tutt’altro è il dire di Gesù, tutt’altro il suo obiettivo.
La sua è una dichiarazione ufficiale di presenza. La morte di Lazzaro diventa occasione per Gesù di ricordare a tutti che il Dio dei Padri, il Dio delle promesse, il Signore delle galassie e degli universi, il Creatore è il Presente: anche nella morte. È colui che fa suo il pianto di chi ama, la disperazione di chi si scopre a mani vuote e impotenti. Lui non ha bisogno della nostra malattia o della morte per mettere alla prova la nostra fede, lui sceglie di abitare la nostra malattia e la nostra morte facendosi accanto, tendendoci le mani, richiamandoci sempre alla vita.
Non si stanca di ripeterci che siamo eredi dello stesso Spirito di Dio, e che per questo siamo noi stessi vita. Non si stanca di aprire i mille sepolcri che ci costruiamo con le nostre mani per ricondurci a casa, nel cuore del Padre. Questa è la gloria di Dio, questo il senso stesso del dono di Gesù che raggiunge negli eventi della Pasqua il suo apice.

Luce tra le tenebre? – BUONA DOMENICA! IV DI QUARESIMA – ANNO A

Andò, si lavò e tornò che ci vedeva.

(Gv 9,7)

Nel tempo penitenziale che caratterizza la Quaresima splendono in questa IV domenica significative scintille di gioia. Adesso qualcuno mi dirà: «Letizia, sr Mariangela. Siamo in Quaresima… gioia è troppo!». E perché mai è troppo? Di gioia ci parla l’antifona di ingresso. E l’antifona di ingresso – lo sappiamo – dà sempre il tono a tutta la celebrazione. Quindi: gioia! Auguriamoci reciprocamente di poterla sperimentare, di poterla vivere nel più profondo del nostro cuore. Auguriamoci di poterla desiderare… poiché in molti hanno messo la gioia nella categoria delle cose impossibili. Una gioia fondata, una gioia motivata e consapevole, non superficiale.
La fonte della nostra gioia è la Pasqua.
È la risurrezione del Dio che si è lasciato crocifiggere per amore che ci abilita a provare gioia, che ci autorizza a desiderarla.
La gioia non è possibile solo quando qualcosa ci va particolarmente bene; e non è impossibile quando tutto attorno a noi e in noi sembra franare.
Esiste qualcosa di più profondo che nasce dalla consapevolezza di essere amati, di essere preziosi, di essere importanti per qualcuno; e questo qualcuno per noi è il Signore della vita, il Dio delle promesse, il Nazareno morto e risorto.
Le letture di questa domenica laetare ci svelano un singolare volto di Dio: ce lo fanno contemplare come colui i cui progetti poco si sposano con i nostri. Nella prima lettura leggiamo di un profeta inviato a consacrare re un giovanissimo pastore. Un profeta certamente stravolto da quelle parole divine che gli dicono quanto sbagliati siano i suoi criteri di scelta quando i suoi occhi si poggiano sul più grande e forte: «Non guardare al suo aspetto… Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo… il Signore vede il cuore». E così Samuele fortemente orientato dalle parole di Dio consacra non il più grande, ma il più piccolo. È una storia, questa, che si ripeterà più e più volte. E pur facendo le debite differenze è la stessa storia che vediamo accadere tra Gesù e l’uomo nato cieco.
Maestri della Legge, anziani, capi del popolo, il popolo stesso, restano tutti fortemente interdetti di fronte a quell’opera straordinaria avvenuta nei confronti di chi è palesemente fuori da ogni retta via e per giunta in giorno di sabato. Anche in questo caso la potenza di Dio si rivolge verso un escluso, un non considerato, un “fatto fuori”.
E poi, Dio stesso… chi sceglie di essere? E come sceglie di finire? Un uomo errante, preso per lo più per matto se non per bestemmiatore, condannato e crocifisso.
Eppure… proprio tutto questo ci fa dire che la gioia è possibile. Sapere di avere a che fare con un Dio illogico (rispetto alle nostre logiche) ci permette di credere nella possibilità di una vita straordinaria. Sapere di essere amati, voluti, creati, salvati dal Dio ultimo ed escluso, ci dice che per tutti noi c’è una possibilità concreta e reale di svoltare. E svoltare davvero!
Vogliamo provare a crederci? Provarci! Semplicemente provare a fidarci di colui che davvero può portare luce nella nostra vita, amore nelle nostre solitudini, speranza nelle nostre fatiche, fiducia nelle nostre delusioni.
Proviamo a tirarci fuori da noi stessi?
La Pasqua è vicina. Proviamo a lasciarci invadere dalla Luce? Gli consentiamo di capovolgerci? Dio non misura, non è misura. Lui è sovrabbondanza!

L’audacia di non accontentarsi – BUONA DOMENICA! III DI QUARESIMA – ANNO A

Chi berrà dell’acqua che io gli darò,
non avrà più sete in eterno.

(Gv 4,5-42)

Il Vangelo di Giovanni è carico di incontri, incontri che Gesù fa. E la terza domenica di Quaresima dell’anno A fa risuonare per noi uno dei più straordinari incontri: quello con la donna samaritana. È una pagina intensa e a tratti rivoluzionaria, almeno per come noi ci siamo abituati nel tempo a pensare Dio e la relazione con lui. Questa donna, come altre donne del Vangelo di Giovanni – Marta, Maria nell’unzione a Betania, Maria di Magdala, la stessa Maria madre di Gesù –, appaiono al limite dell’ammissibile, a tratti dissacranti: nei loro atteggiamenti, nelle loro richieste sembrano lontane anni luce dalla riverenza di chi non osa chiedere e resta sempre un passo indietro, di chi ha un sacro rispetto del Maestro di Nazaret, e piuttosto parla con altri a bassa voce, di nascosto… La Samaritana è sfacciata. Marta sembra richiamare Gesù in più occasioni. Maria di Betania, ungendo Gesù, scandalizza i Dodici. Maria di Magdala prova a trattenere il Risorto e la Madre, a Cana, fa scoccare l’ora di Dio. Pagine strane… pagine che non lasciano tranquilli… Ma se queste pagine esistono hanno un senso. I Vangeli nascono dalla memoria di comunità che raccontano la fede, che riscoprono nel quotidiano le vie Dio e le sfumature della sua presenza, che cercano risposte, che vogliono capire come può trovare realizzazione concreta quel comandamento dell’amore lasciato dal loro Signore risorto. Per questo ogni pagina che arriva a noi, che è stata scritta perché noi credessimo è una pagina preziosa che può aprire vie per il nostro cammino di fede.
Oggi, lasciamoci invadere dall’audacia della Samaritana. Una donna capace di portare il carico della vita, il peso di quei cinque mariti che la rendono sospetta tanto a noi quanto ai suoi stessi contemporanei, tanto da costringerla ad andare a prendere acqua nell’ora più calda del giorno. Una donna la cui concretezza emerge anche nei dettagli: «Signore, non ha un secchio e il pozzo è profondo; da dove prendi dunque quest’acqua viva?». Una donna che non tace, non si accontenta, non si fa zittire e interroga, scava e cerca un senso. Una donna che intuisce la novità di quell’uomo, di quelle parole, di quell’atteggiamento, e va fino in fondo.
L’acqua resta la grande metafora di questa domenica, il segno che attraversa le promesse di Dio al suo popolo e arriva a noi. L’acqua non conosce mai confini. È disponibile per chiunque la raccolga. Sgorga dalle profondità della terra o scende dalle altezze delle vette, e non sceglie, non evita, non esclude: invade, penetra, riempie. Così Dio: acqua che sgorga dalla roccia in un deserto. Così il Cristo: acqua viva che zampilla irrefrenabile e rende vivo chi ha sete.
Davanti a noi, oggi, il fermo immagine va su un Gesù che ci viene incontro nell’ora più calda, quando forse, stanchi e sfiduciati, ci nascondiamo anche a noi stessi. E va sulla donna di Samaria, sulle sue domande, su quelle perplessità tangibili, su quella sua anfora lasciata lì ormai non più necessaria, o comunque superata da un’urgenza interiore: andare perché anche altri vedano, incontrino, scoprano colui che lei stessa ha visto, ha incontrato, ha scoperto: l’acqua viva che può dissetare ogni sete.
«Dacci da bere, Signore Gesù, rendici acqua che fa vivere!»