Ma bisognava far festa e rallegrarsi,
perché questo tuo fratello
era morto ed è tornato in vita,
era perduto ed è stato ritrovato.
(Lc 15, 32)
La parola di Dio è per tutti. Gesù è stato ed è un salvatore per tutti. Dio, dice san Paolo nella seconda lettura di questa IV domenica di Quaresima, ha riconciliato il cielo con la terra, e lo ha fatto per tutti. Ed è questo il primo pensiero, il primo commento che mi viene meditando sulle letture che la Liturgia ci offre. Questa la convinzione che mi accompagna riascoltando la parabola del Padre misericordioso.
Di fronte a questa parabola potrei scegliere altre mille prospettive: potremmo parlare del padre e del suo grande cuore; potremmo parlare del figlio, il figlio che torna solo perché ha fame; e potremo parlare anche solo del secondo figlio, il maggiore, il più saggio, il più vicino, il più fedele, lasciandoci scuotere e rimettere in discussione però dalla sua durezza, dalla sua paura di perdere, di condividere… Insomma i temi oggi sarebbero tanti.
Ma io scelgo di fermarmi sul primo versetto del capitolo 15 di Luca, su quelle parole dell’evangelista che introducono la parabola che Gesù racconta. Per me oggi è questa la prima e forse più urgente e necessaria rivoluzione.
Attorno a Gesù ci sono pubblicani e peccatori, ma al tempo stesso farisei e scribi. Ed è davanti a questo uditorio che lui parla senza allontanare alcuno. Rivolge le sue parole a peccatori e a pubblicani, a chi è da tutti riconosciuto come lontano da Dio, e al tempo stesso parla a scribi e farisei, a coloro cioè che custodiscono, studiano e diffondono, insegnano la legge di Dio, l’alleanza, il legame del popolo con il Dio dei padri.
Gesù si rivolge a tutti, a coloro che vogliono ascoltare e a chi vuole accusare, perché la parola di Dio è per tutti. Nessuno ne è escluso.
La parola di Dio può aprirci strade di vita autentica, può trasformarci, può rimettere in discussione le logiche che muovono le nostre scelte, può chiamarci a una conversione radicale. Per questo è per tutte e tutti noi.
Nelle parole di Gesù c’è la via, ci sono le indicazioni per andare oltre le cose vecchie e permettere alle nuove di nascere.
C’è una certezza:
il padre paziente che resta a braccia aperte, che condivide tutto, che sa gioire e invitare alla festa, che non carica pesi su nessuno, che ama.
E poi c’è una via per pubblicani e peccatori e un’altra per farisei e scribi.
A chi è lontano Gesù indica la casa in cui tornare per vivere: le braccia di chi da sempre ama, e sempre aspetterà.
A chi è vicino, parte importante di una comunità credente, Gesù indica la gioia e la condivisione, perché altro senso il Vangelo non ha se non renderci nuovi, autentici, liberi, amati e liberanti, capaci di essere come Dio una casa dalle porte sempre aperte per tutte, per tutti.
Bisogna far festa, anche in tempi oscuri.
Bisogna avere il coraggio di diffondere la gioia vera che restituisce a ogni persona la bellezza, anche semplice, della vita.
Bisogna far festa, oggi, perché Dio anche nel silenzio continua ad abbracciare questa inquieta e a tratti incomprensibile storia.
UNA PREGHIERA COME SOSTEGNO
Insegnaci a far festa
Tu, Signore, sei padre prossimo,
ma noi ti pensiamo Dio lontano:
convertici a te!
Tu sei riconciliazione,
ma noi ti pensiamo giustizia:
convertici a te!
Tu sei attesa infinita,
ma noi applichiamo scadenze:
convertici a te!
Tu sei festa per chi ritorna,
ma noi chiediamo pentimento:
convertici a te!
Convertici a te,
Dio dell’amore e del perdono,
e insegnaci a far festa
per ogni sorella e fratello che torna;
insegnaci a gioire semplicemente
perché torna nuovamente
tra le tue braccia.
Amen.
DAL VANGELO DELLA DOMENICA
(Lc 15,1-3.11-32)
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Ed egli disse loro questa parabola:
«Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
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giornate. Eppure abbiamo bisogno di tornare all’essenziale, proprio ora che le difficoltà crescono e la tentazione della sfiducia, anche nella Chiesa, diventa incombente. Tenendo fisso lo sguardo sulla bellezza di Dio, intuita, assaporata, cercata, possiamo ribaltare i banchetti delle nostre approssimative e inconcludenti visioni di Dio per liberare il tempio del nostro cuore (e il tempio che è la Chiesa) da una visione mercanteggiata della fede.
ridato fiato alla natura. È una visione semplicistica, eppure efficace: Dio punisce il peccato del popolo. Ma già nell’Antico Testamento si è approfondito il tema capendo che non è Dio a punire, ma il peccato stesso. Il peccato è male perché ci fa del male, il peccato distrugge, non Dio!
possiamo vivere in un prolungato inverno, ostinandoci a dire che non esiste nessuna bella stagione e che, al massimo, noi sappiamo vestirci meglio degli altri.