È lui [il Padre] che ci ha liberati dal potere delle tenebre
e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore,
per mezzo del quale abbiamo la redenzione,
il perdono dei peccati.
Col 1,13-14
È trascorso un anno, un intero anno liturgico, e la Solennità di Cristo Re dell’universo ci ricorda che un anno di grazia ricevuta sta per chiudersi, e un nuovo anno sta per aprirsi. Ho detto anno di grazia, benché sia cosciente che per molte e molti tra noi questi 365 giorni siano stati carichi anche di ruzzoloni, di cadute, di grazie sperperate, di peccato, di eventi che hanno messo a dura prova la nostra fede nel Signore, e per alcuni, o forse molti, la strada è ancora in salita.
Eppure siamo qui, e la liturgia ci accompagna a contemplare lo strano mistero della regalità di Gesù, il Cristo Salvatore, il Signore dell’universo.
La definisco strana perché va oggettivamente oltre ogni nostro orizzonte logico.
Se definissimo «Re» certamente non potremmo tacere privilegi, potere, dominio. E seppur volessimo pensare ai migliori tra i re, dovremmo comunque ammettere che anche la generosità è una questione di gentilezza, di concessione dall’alto verso il basso.
Qui, davanti alla pagina di Vangelo che la liturgia ci propone, le cose sembrano stare un po’ diversamente.
Io però un certo disorientamento lo vivo. E lo vivo proprio pregando una dopo l’altra la Seconda lettura e il Vangelo.
Da una parte la descrizione di un vero e proprio Re dell’universo, un Figlio di Dio davvero salvatore e liberatore. Un Messia come ce lo saremmo aspettato, capace per la sua potenza di dare forza e sicurezza alla nostra fede. Egli è l’immagine del Dio Invisibile, dice Paolo ai Colossesi. Egli è colui nel quale tutte le cose sono state create ed esistono. Egli è il fine, il senso della creazione stessa, ma è anche il suo compimento. È colui che può ancora e sempre congiungere il cielo e la terra, riconciliando il cielo con la terra.
E diciamolo: è il re di cui abbiamo ogni giorno bisogno. È il re che fa bene alla nostra fede, alle nostre incertezze, ai quei timori che, a tratti, consumano le nostre energie buone.
Ma poi c’è il Vangelo, ed è come se le cose si capovolgessero. Quello che ci troviamo davanti è un re debole, ferito, che non reagisce. È un re crocifisso, colpito, schernito. È un re che non ci risolleva, non ferma la violenza, non alza il suo braccio potente contro ingiusti e malfattori. Non respinge neppure l’ingiuria.
Eppure è questo il re che il Padre ha voluto che vedessimo. È questo il re che ci ha salvati. È il re che ha riconciliato il cielo con la terra. E lo ha fatto morendo.
Quello descritto per la comunità di Colosse è il re di cui la nostra fede ha estremo bisogno, perché noi abbiamo paura della fragilità, rifuggiamo il dolore e la morte, ci terrorizza il fatto di non avere certezze immediate.
Ma il Re che il Vangelo ci regala è la narrazione storica di ciò che è avvenuto, del modo attraverso cui Dio ci ha salvati, liberandoci definitivamente dalla morte e dal peccato.
Gesù risorge, e noi possiamo contemplare un re crocifisso e risorto, sul cui corpo sono rimaste tracce eterne di dolore e morte.
Ma con Gesù, e per mezzo di lui, anche il malfattore buono va oltre la morte e riceve vita. E in questo gesto di prossimità generativa noi vediamo il Re di cui il mondo ha davvero bisogno.
Non perché onnipotente, ma perché prossimo.
Non perché eterno, ma perché segnato dall’umanità.
Non perché invincibile, ma perché segnato dalla morte.
Non perché intoccabile, ma perché sempre con noi.
Noi ti lodiamo, Re dell’universo, Dio prossimo alla nostra fragilità.
Il Re crocifisso
Ti contempliamo, Re crocifisso,
Innocente condannato,
Dono rifiutato.
E in te contempliamo il volto vero
dell’Amore che riscatta e libera,
risolleva e fa vivere.
Noi, cercatori di un dio convincente,
che inciampiamo nella fragilità
e ci lasciamo disorientare dal dubbio,
noi oggi ti benediciamo, Signore Gesù,
per aver abbracciato
la nostra umanità fino alla morte.
Noi ti lodiamo, Re della storia,
e Signore dello spazio,
e a te ci affidiamo. Amen.
DAL VANGELO DELLA DOMENICA
(Lc 23,35-43)
In quel tempo, [dopo che ebbero crocifisso Gesù,] il popolo stava a vedere; i capi invece deridevano Gesù dicendo: «Ha salvato altri! Salvi se stesso, se è lui il Cristo di Dio, l’eletto».
Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male».
E disse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
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È il rischio che corriamo quando, di fronte alla storia che chiama, al bene da fare, all’avvento di Dio nel mondo e nella vita dei nostri fratelli, noi ci sentiamo apposto, al sicuro, perché nel nostro piccolo sentiamo di aver dato tutto: la vita, le idee, il tempo.