«Rabbunì,
che io veda di nuovo!».
(Mc 10,51)
Ciechi guariti, donne e uomini consolati e ricondotti a casa, un Dio che si dichiara padre.
Dovrebbe regalarci grande serenità e pace nel cuore tutto questo, eppure ci sono domande che accompagnano la mia meditazione e le fanno quasi da basso continuo: quando Signore? Quando ci regalerai questa consolazione? Quando ci riporterai a casa? Quando i nostri occhi torneranno davvero a vedere? Quando torneremo ancora una volta a essere donne che generano, che attendono, che desiderano non possedere la vita, aggrappandovisi a denti stretti, ma donarla?
Mi fa paura Geremia, mi fanno paura le sue parole, perché le sento profondamente vere anche per noi oggi, anche in questi tempi strani impastati di presunta onnipotenza e drammatiche fragilità. Mi fa paura quella lapidaria consapevolezza che Geremia rende annuncio profetico: «Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d’Israele».
Mi fa paura la distanza che esiste tra quello che noi capiamo di Dio e quello che lui è. Tra quello che lui ci prospetta davanti e quello che noi crediamo sia buono raggiungere. Mi fa paura diventare resto, anche se una parte del mio cuore dice che già lo siamo, dice che è proprio quella la frontiera da raggiungere; che la terra promessa dell’incontro generativo con Dio è proprio lì… dove le maggioranze non ci sono più, dove la fede è convinzione e passione, dove sai di non poterti più affidare a null’altro che a lui e alla tua fiducia in lui. Il resto non è forte: è cieco, zoppo, ferito, e al tempo stesso incinta e partoriente. Il resto è la visibilità di quegli assurdi che umanamente sono improponibili ma che in Dio si toccano.
Essere resto. Quanto è difficile desiderarlo!
Quanto è duro prenderne coscienza!
Quanto è più facile ritrovarsi sfiancati da quella inutile lotta per non diventarlo!
Eppure Dio è sempre pronto a sollevare chi chiede, a portare alla sua guancia chi tende le mani, a riportare alla luce chi non vuole restare nelle tenebre.
E chi chiede, è il piccolo resto.
Chi tende mani, è il piccolo resto.
Chi vuole uscire dalle tenebre, è il piccolo resto.
Auguriamoci reciprocamente di avere la coscienza di Bartimeo, uomo sì cieco, ma a quanto pare non rassegnato: non rassegnato alla sua cecità, non rassegnato al suo limite, non rassegnato al ciglio della strada.
Chiede, Bartimeo; e lo fa instancabilmente.
Chiede, e la sua voce supera le voci di chi lo vuol far tacere.
Chiede fino a urlare, perché lui sa, conosce, si fida di colui che sta passando, di quel Gesù di Nazaret.
Possa la nostra coscienza cristiana essere così: non rassegnata e certa di Colui che ci sta sollevando, sta diradando le tenebre e ci renderà ancora capaci di vita.
Aiutaci a vedere!
Siamo ciechi, Signore,
anche se non lo sappiamo.
Zoppichiamo, Signore,
anche se crediamo di correre.
I nostri grembi sono sterili, Signore,
anche se ci ostiniamo
a dare colpe fuori di noi.
Riportaci a casa, Dio della vita,
Padre della storia, Signore del tempo.
Riportaci a casa e fai grandi cose per noi.
Non su di noi, ma dentro di noi.
Riportaci lì dove ogni cosa è nata,
dove un giorno ti abbiamo incontrato,
dove acqua zampillante
ci ha guarito e consegnato alla vita.
Rabbunì, aiutaci a vedere, a credere, a cantare.
Amen.
DAL VANGELO DELLA DOMENICA
(Mc 10,46-52)
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!».
Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!».
Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù.
Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
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